UNA SEMPLICE MACCHIA D'INCHIOSTRO
- UNA SEMPLICE MACCHIA DI INCHIOSTRO -
Alcune volte i viaggi più belli sono quelli che ci portano in posti sconosciuti, a lungo ipotizzati, sognati, ricreati nella nostra immaginazione anche con un certo timore e che alla fine, quando ci sei dentro, ti rendi conto che la realtà supera di gran lunga le aspettative e tutto quello che avevi fantasticato fino a quel momento, non tanto per il succedersi degli eventi, che avrebbero anche potuto in qualche modo essere previsti, quanto per l’entità delle emozioni capaci di provocare certi incontri, certi sguardi, certi gesti, sensazioni che sembrano essere rimaste lì sopite per anni e secoli e che improvvisamente, come allo sciogliersi di un potente incantesimo, ritrovano la luce del sole. Le emozioni quelle, è difficile riuscire a immaginarle o prevederle senza averle vissute davvero, almeno quanto è impossibile dimenticarle dopo, quando ti sono entrate nel profondo dell’anima e ti hanno percorso interamente le vene.
Avviando il motore capii immediatamente che il mio viaggio su quella strada percorsa già molte volte sarebbe durato più del solito.
Ero sola e dovevo affrontare quasi 400 km, la mia indole fin troppo riflessiva mi stava già chiedendo di sollevare un pochino il piede dell’acceleratore in modo da darle il tempo necessario per pensare, ragionare ed abituarsi alla nuova situazione alla quale la stavo sottoponendo, come se i mesi precedenti, dedicati alla preparazione e all’organizzazione di quello che sarebbe successo di lì a poco, non fossero ancora stati sufficienti.
La verità è che non si è mai pronti a certe situazioni, e anche nelle condizioni più positive, anche se l’idea stessa di viverle ci riempie di emozione o di eccitazione, vorremmo rimandare quei giorni, quei momenti all’infinito, non fosse altro che per avere la certezza di tenerli lì cristallizzati per sempre.
Nel mio caso però era l’incertezza che riusciva in qualche modo a rallentarmi e forse anche a spaventarmi.
Normalmente il giudizio degli altri non mi aveva mai toccata più del dovuto ma questa volta era diverso.
Avevo scritto km di parole che mi raccontavano, che parlavano di me senza nascondere nulla, fiduciosa in quel celebre aforisma secondo il quale "se parli col cuore la gente di cuore ti capirà". Dovevo prendere atto che questo concetto mio malgrado, applicato alla realtà non aveva mai reso buoni frutti, forse non avevo mai tirato fuori abbastanza cuore come credevo, forse avrei dovuto rischiare di più, ma l’incentivo che mi proponeva la società nella quale avevo vissuto fino a quel momento non era certo incoraggiante e anzi mi dava continuamente prova di andare in un'altra direzione.
Quando scrivevo era tutta un’altra cosa. Con la penna non avevo timori, non avevo pudori, non avevo scudi o armature, non avevo mai cercato di proteggere o centellinare le mie emozioni per paura che venissero calpestate. Mi ero imposta questa regola: quando parlavo per mezzo di una penna sarei stata niente di più e niente di meno di quella che sentivo di essere, senza temere di deludere le aspettative di chi mi stava leggendo e in qualche modo questo sistema aveva sempre funzionato. Normalmente chi aveva deciso che valeva la pena prendersi l’onere di leggere le mie distese di infinite parole e dargli l’attenzione che secondo me meritavano sembrava armato dallo stesso spirito di autenticità che stava guidando anche me.
Non so se fosse perché portavamo lo stesso cognome, per semplice curiosità o solo per noia, una piccola parte di me ad un certo punto cominciava davvero a pensare di essere brava con la penna e di riuscire a canalizzare l’attenzione di persone in grado di riconoscere le parole sincere, quelle che arrivano dritte e pulite come una freccia in un bersaglio. Fatto sta che Il gruppo che aveva creato Rodolfo e che adesso contava ben 170 membri non sembrava fare eccezione a questa regola.
Tutte quelle persone non mi avevano mai incontrata di persona e non avevano quindi mai avuto l’opportunità di mettermi a confronto con la persona solitaria, emotiva, introversa e sicuramente molto poco propensa alla comunicazione alla quale la gente che frequentavo abitualmente era avvezza. Paradossalmente tutte quelle persone che avrei dovuto incontrare e che il resto del mondo avrebbe senza indugio definito ‘estranei’ mi conoscevano meglio di colleghi di lavoro ventennali o di persone estremamente superficiali che ti definiscono ‘amica’ solo perché pretendono una garanzia di riservatezza quando si sentono in dovere di raccontarti pettegolezzi o lamentarsi delle loro faccende personali.
Adesso era arrivato il momento di incontrarli, non uno per volta ma addirittura tutti insieme, tutti in un momento, avevo paura di deluderli e nuovamente di venire incompresa per la mia incapacità di comunicare con la voce allo stesso modo che con la penna. Mi sentivo come chi sta per fare un salto nel vuoto dopo aver preso una lunga rincorsa e anche se terrorizzato non può più tirarsi indietro.
Nel primo pomeriggio giunsi a Porto Garibaldi, respirare l’aria di quel mare e ritrovare con gli occhi tutti i punti di riferimento che avevo memorizzato fin da bambina servì a tranquillizzarmi.
Imboccata la Romea presi la direzione dell’Oasi Bianca, il resort dove il sabato sera ci sarebbe finalmente stato il grande evento che avevamo a lungo organizzato e curato nei minimi dettagli: il raduno dei Biolcati Rinaldi provenienti da tutta l’Italia ovvero il BIOLCATI RINALDI DAY, al quale avevano aderito contro ogni aspettativa circa 90 persone.
All’inizio dell’anno avevamo creato un gruppo su Whatsapp di cui facevamo parte Lorella, Alessandro, Morena (che vivevano tutti nella zona di Bosco Mesola dove il nostro cognome aveva avuto origine circa 400 anni prima), Rodolfo di Giaveno, vicino a Torino ed io che arrivavo da Tortona, nel basso Piemonte.
Lo scopo di questo gruppo era proprio organizzare una serata in cui tutte queste persone, che in gran parte non si erano mai viste prima ma che interagivano ormai da anni attraverso il gruppo Facebook che portava il nostro cognome, avrebbero fatto conoscenza scambiandosi presumibilmente informazioni, foto, aneddoti di famiglia e quant'altro, in modo da ricostruire legami che erano andati ‘insabbiati’ nel tempo e persi nelle memorie di quelli che purtroppo per il normale e crudele ciclo della vita, non c’erano più. L'obbiettivo era ricostruire le proprie radici, la propria storia, l'impresa non era facile ma sapevamo di poterlo fare con il piccolo contributo di tutti. Spesso ci eravamo trovati la sera noi cinque a scambiarci messaggi spiritosi, a chiacchierare del più e del meno, a prenderci in giro condividendo con gli altri le nostre piccole questioni quotidiane e senza che ce ne rendessimo conto eravamo già una famigliola di cinque persone.
Il pomeriggio stesso del mio arrivo, incontrai per la prima volta Morena che stava lavorando nel suo bar a Vaccolino.
Parcheggiai davanti all’entrata e mi avvicinai al banco come una cliente qualsiasi salutando con un cordiale – buongiorno-. Morena esitò soltanto un attimo osservandomi con più attenzione – Silvia!- Grazie a Dio mi riconobbe immediatamente e uscì da dietro il bancone ignorando completamente la mia mano tesa nel modo che la buona educazione impone e fedele all’idea schietta e genuina che mi ero fatta di lei mi prese e mi strinse in un abbraccio quasi materno tanto che, felice di essere costretta a depositare l’armatura ancor prima di doverla indossare, ricambiai con gioia quell’abbraccio così caldo e sincero.
Una volta informato il gruppo del mio arrivo iniziò una anteprima della nostra festa. Una festa in piena regola, fatta di scherzi e risate, di discorsi più o meno seri, di ricordi e di sensazioni che tornano continuamente a galla, di ore insonni a immaginare, a vivere e rivivere, mai sazi, gli stessi momenti.
Rodolfo era arrivato lì la sera prima con la moglie Liliana e si era piazzato col suo camper non lontano da lì, al Lido di Volano. Lorella ci raggiunse dopo poco.
Rivedere Lorella e Pietro, anche dopo più di un anno fu come non essere mai andata via da loro.
In effetti probabilmente era proprio così, perché Lorella ed io sviluppammo da subito una sintonia, una specie di empatia grazie alla quale riuscivamo a comunicare senza molte parole anche a 400 km di distanza. Questo non significa che quando ne avevamo occasione facessimo economia di parole, anzi.
Il suo sguardo pieno di emozione e commozione nel vedermi era una parentesi che si apriva e che già sapevo si sarebbe chiusa allo stesso modo la domenica, quando nostro malgrado avremmo dovuto salutarci nuovamente.
Avevamo chiacchierato buona parte del pomeriggio passeggiando sul pontile di legno di Volano sotto lo sguardo e la compagnia sempre paziente di Pietro.
Il mare era piatto e lucido come una lastra di vetro e l’orizzonte una linea azzurra quasi impercettibile.
Era la fine di settembre, insolito per me trovarmi lì in quel periodo, apprezzavo quel caldo che non era più soffocante e tropicale come ad agosto ma che permetteva ancora qualche nuotata nel mare pulito e tranquillo, e qualche corsa su quelle spiagge delle quali i legittimi abitanti si erano finalmente riappropriati perché abbandonate ormai dai turisti, mentre i pescatori con le loro bilance catturavano pesci a secchiate.
Probabilmente Lorella era abituata a trovarsi in quello scenario, anche se conoscendola non avrei mai potuto immaginarla altrove per un periodo troppo lungo, ma per me trovarmi lì in quel momento era come divenire una piccola goccia di colore acceso caduta per caso nel quadro perfetto di un pittore romantico. Fantasticare con Lorella con uno sfondo del genere riguardo a quello che sarebbe successo la sera seguente, non faceva altro che appagare senza ritegno il mio animo da eterna sognatrice.
Nel frattempo tramite i social le adesioni continuavano ad arrivare, tanto che incominciavamo seriamente a preoccuparci del fatto che forse quella sala, seppure così spaziosa, non sarebbe stata sufficiente a contenerci tutti.
La sera stessa Morena ci aveva invitati nel suo bar per cena e verso le nove intorno al tavolo c’era tutto il direttivo: Rodolfo e Liliana, Lorella e Pietro, Franco e Morena, Alessandro, Lorenzo ed io.
Quella situazione era famigliare e divertente, mi dava l’idea di una bisca clandestina dove ognuno buttava sul tavolo quello che aveva, tortellini e dialetto ferrarese, nomignoli, storie divertenti, passioni e hobbies, curiosità storiche e locali, tutto perfettamente mescolato in un clima festoso e amichevole con quella confidenza che sai apprezzare solo quando sei in famiglia, ma nonostante quell’atmosfera rilassata, definendo gli ultimi dettagli, sentivo ripresentarsi la solita ansia alla bocca dello stomaco. ...Lorella stava peggio di me e sapevo che quella notte nessuna delle due avrebbe dormito.
La mattina del sabato me la ero regalata come un premio guadagnato per tutte quelle volte che avrei voluto mollare tutto per scappare via e invece avevo resistito.
Aprendo la porta della mia stanza ero improvvisamente in mezzo alla campagna, la rugiada della notte ancora intatta sulle foglie della siepe e sui vetri delle finestre e l’aria fredda del mattino stavano già danzando con i raggi di quel sole ancora vivace. L’Abbazia di Pomposa era la mia vicina di casa più prossima, il suo campanile sembrava punzecchiare il cielo per tirargli fuori qualche goccia di blu. Considerando l’epoca in cui era stato costruito quell’edificio osservai che la sua architettura di fattura romanica così perfetta sembrava un incanto, una di quelle opere maestose e solenni come possono esserlo le piramidi o il Gran Canyon.
Fatta colazione sono salita in macchina direzione Comacchio, una passeggiata tra i ponticelli, i canali, tra quelle viette che conoscevo bene perché ogni anno non trascuravo di visitarle e poi un giro a Porto Garibaldi e sulla spiaggia piatta, luccicante e sconfinata del Lido degli Estensi dove di nuovo mille ricordi hanno assalito la mia mente riempiendomi di nostalgia.
Alle due del pomeriggio l’appuntamento era all’Oasi Bianca con tutto il direttivo per decidere i posti a sedere.
Mi sentivo quasi un fenomeno per aver trascorso buona parte della notte a ritagliare e scrivere i nomi di tutti i partecipanti su bigliettini colorati in cui ogni famiglia aveva una tinta diversa.
Lorella però, che come avevo immaginato non aveva chiuso occhio, era riuscita a superarmi, infatti aveva sfruttato la notte per studiare i profili Facebook di ognuno di loro non soltanto per capire i legami famigliari (mogli, mariti, fratelli, sorelle, figli ...) ma anche e soprattutto i luoghi di provenienza in modo da metterli seduti con ordine e criterio e perché nessuno si sentisse a disagio avendo accanto qualcuno che gli fosse completamente sconosciuto.
Il risultato fu che Lorella sembrava già conoscerli tutti. Ero sbalordita dal lavoro meticoloso e sistematico che era riuscita a fare in così poco tempo.
Morena dal canto suo aveva curato tutta la parte pratica fino a quel momento, interagendo con la direzione del resort, riuscendo a contrattare la miglior proposta di menu al prezzo più vantaggioso, raccomandandosi fino allo sfinimento sulla buona riuscita di ogni pietanza e mettendosi addirittura a disposizione del cuoco nel caso avesse voluto qualche suggerimento o un aiuto pratico in cucina.
L’avevo soprannominata ‘il generale Morena’. Avrei avuto molta paura di deluderla al posto loro.
Alessandro che sembrava volersi defilare in ogni occasione ma che in qualche modo riusciva sempre a sapere tutto e a dire la sua o a mettere in moto qualche meccanismo organizzativo senza sbilanciarsi troppo, ci controllava e commentava attraverso le dirette Facebook.
Rodolfo come un vero ‘boss’ aveva dato una sola occhiata alla sala complimentandosi con noi. Lui era l’unico che sembrava davvero tranquillo fin dall’inizio, quando Lorella ed io prese da un pochino di sconforto, avevamo il timore di trovarci in una ventina di persone al massimo a brindare la sera del 29 settembre.
Ormai erano quasi le cinque del pomeriggio, alle 18,30 iniziava la festa e ancora arrivavano richieste di adesione.
Tornata nella mia stanza accesi la tv per sciogliere la tensione e ad un certo orario iniziai a prepararmi.
Oltre le mie finestre con le persiane chiuse sentivo un gran movimento di auto e le voci che cominciavano ad aumentare di volume. Il cuore accelerò i battiti e mi prese il panico. L’idea di aprire quella porta e trovarmi all’improvviso tra tutti quegli sconosciuti che probabilmente avevano delle aspettative su di me mi atterriva. Ecco che la paura di deludere si ripresentava come una maledizione mentre mi chiedevo il motivo di tutta quella preoccupazione se davvero consideravo quelle persone come degli sconosciuti. Non mi vergogno di dire che ad un certo punto avrei voluto avere la mamma lì vicino a farmi coraggio, ma niente da fare, in quel momento non c’era. Cercavo un’alternativa e mi venne in mente Lorella.
Le scrissi che non avevo il coraggio di uscire finché non fosse arrivata e dopo pochi minuti lei mi richiamò con un tono tra il terrorizzato e il sedato: - esci - mi disse- sono tutti qui nel cortile, è pieno di gente -.
Lo so, sono una scellerata, ma il suo tono mi fece scappare da ridere, all’idea che lei fosse così agitata mi sentii subito meglio.
Insieme ci avvicinammo a quella moltitudine suddivisa in tanti gruppetti che grazie al cielo, pieni di entusiasmo, stavano già interagendo tra di loro.
Cominciai a riconoscere qualcuno, le persone con le quali avevo scambiato più parole, con le quali avevo condiviso più pensieri: Amedeo, Mauro, Roberto, Christian, Oderio, Silvano, Diana...E poi altre persone con le quali non avevo parlato moltissimo ma che avevo imparato a conoscere tra le righe, dalle loro parole, dal loro modo di scrivere e di interagire con il gruppo o dai racconti delle persone che vivevano con loro e che con me parlavano di più. La cosa più folle è che nella maggior parte dei casi riuscivo finalmente ad accostare un nome ad un volto, avevo l’impressione di riuscire tutto d'un tratto a conoscere i protagonisti del mio romanzo preferito.
Non posso nominarli tutti ma certo è che eravamo 87 anime, che sono riuscita a parlare con ognuno di loro e non c’è stata una sola persona che mi abbia fatto una impressione negativa, che mi abbia dato l’idea di volersi trovare altrove o che in qualche modo cercasse di rimanere in disparte prendendo le distanze dagli altri.
L’atmosfera era strana, per tutta la sera la gente chiacchierava alzandosi anche dal tavolo per andare a conoscere gli altri per scambiarsi foto di famiglia e farsi quella domanda che qui nella nostra terra di origine è tanto usata ‘ad chi jet fiol?’.
Nonostante l’allegria e la comprensibile curiosità nessuna voce sovrastava le altre, nessuno doveva gridare per farsi sentire, c’era un clima di profondo rispetto e condivisione e sorrisi che piovevano da ogni parte e in ogni direzione.
Lorella era una spugna. Alla fine della serata aveva parlato con tutti e teneva stretto come la mappa di un tesoro, un foglio scritto a penna pieno di nomi e collegamenti, proprio lei che fino a qualche ora prima pensava di non avere legami con nessuno, che si stupiva ogni volta che arrivava qualcuno con il suo stesso cognome allo sportello della radiologia, lei che mi confidava piena di tristezza di aver perso la sua memoria e di conseguenza la sua storia il giorno che era mancato il suo amato papà.
Era emozionante essere testimone di quello che stava vivendo, aveva finalmente compreso che non era rimasta l’ultima dei Biolcati Rinaldi, non era rimasta sola ma aveva avuto fino a quel momento e a sua insaputa una grandissima famiglia.
A giudicare dai mille ringraziamenti ricevuti credo che molti di noi quella sera abbiano acquisito questa consapevolezza, ma nessuno di loro si rendeva davvero conto che, come aveva più volte risposto Lorella, noi in fondo non avevamo fatto nulla...quello che era successo era il risultato dell’importanza che ognuno di loro aveva dato a quell’appuntamento.
Quelli che erano tornati a fare visita alla loro terra e che arrivavano da Latina, da Varese, dal lago d’Orta, da Torino o altre località altrettanto lontane, avrebbero potuto decidere di farlo in qualsiasi altra occasione ma avevano scelto di farlo proprio quel giorno, avevano scelto di riunirsi con la loro famiglia, nel senso più esteso del termine.
Il momento dei saluti arrivò davvero per tutti il giorno seguente, dopo una visita molto interessante al Castello di Mesola e alla Torre Aba, (luogo di origine del nostro cognome) organizzata e guidata magistralmente da Lorenzo che fin dall'inizio e senza tante parole era stato un componente molto importante per la buona riuscita dell'intero avvenimento.
Uno per volta tutti i nostri Biolcati Rinaldi ci salutarono, anche se pareva proprio che nessuno di noi avesse veramente voglia di andarsene via, facendosi promettere di organizzare al più presto un altro evento come quello. Ancora dovevamo allontanarci e già sentivamo la voglia di incontrarci di nuovo.
Un attimo prima di salire in macchina mi resi conto che lì adesso, proprio davanti alla Torre, in mezzo al viale che porta a Santa Giustina, eravamo rimasti soltanto noi, i cinque cugini del direttivo.
Avevo la triste sensazione che si prova quando tramonta una giornata che avevi aspettato per tanto tempo come se, adesso che il nostro compito era concluso, nessuno di noi avesse più niente da fare.
Sapevo che però quello era solo un riflesso fasullo, come l’immagine distorta della Torre che si rifletteva nell’acqua. Sapevo che in qualche modo avevamo dato inizio a qualcosa di molto più grande, qualcosa che doveva compiersi e che tutto l’universo stava tramando perché accadesse.
Salutando Lorella mi calai gli occhiali da sole sul viso per farle credere ancora una volta che ero più dura di lei, cercando di consolarla la abbracciai e le dissi -adesso siamo davvero parenti!- e senza aggiungere più del dovuto salii in macchina nel modo che mi aveva chiesto lei, come se ci fossimo dovute vedere l’indomani.
Ringrazio di avere i miei genitori e mio fratello che non vivono troppo lontano da me perché per la prima volta in quarant'anni appena tornata a casa mia, a Tortona ho avuto la sensazione di non essere nel posto giusto, di non essere tra le persone giuste, di essere davvero troppo lontana da casa, e inconcepibilmente ho iniziato a sentire la mancanza di quei volti e di quelle voci, di quegli abbracci e di quelle pacche affettuose sulle braccia come si usa fare tra persone che ti conoscono da sempre.
Sono ritornata nel mio angolo di mondo di cui fanno parte poche persone, un luogo non troppo in vista da dove osservo tutto senza sprecare troppe parole con individui che si fanno gli affari loro, incapaci di vederti come un dipinto o una poesia ma piuttosto ti considerano una semplice macchia di inchiostro senza alcun significato che disturba la loro banale continuità. Testarda più che mai non smetto di scrivere milioni di parole, consapevole che il mio universo è un'altra cosa, che ci sono piani già stabiliti per noi ma che solo per merito nostro riescono davvero a compiersi.
Percorro nei miei ricordi il vialone che arriva fino a Bosco Mesola, ripenso alla Torre che nello specchio retrovisore diventava sempre più piccola. Mi parve quasi di vederlo Giacomo Biolcati attraverso la sua finestra, nella stessa posizione che avevo visto assumere tante volte al generale Morena in quei tre giorni, la stessa posizione che già scimmiottava la sua nipotina Giulia, con le mani ferme sui fianchi e i piedi ben piantati per terra con quella sua aria fiera e soddisfatta di chi con pazienza e tenacia, non importa quante cose sposta, non importa quante persone coinvolge o la fatica che richiede, non importa quanto tempo occorre, alla fine in un modo o nell’altro ottiene sempre quello che vuole.
... tratto da una storia vera 😉
(Silvia Simona Biolcati Rinaldi)
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